di Eraldo Affinati
C’è sempre un’ombra di malinconia nello sguardo di un ragazzo senza famiglia: puoi capirlo dalla sua camicia sporca, dalle unghie non curate, da come alza le spalle, dalla fretta con cui ti risponde, quasi volesse continuare a fuggire, perfino di fronte a te, che gli stai insegnando le lettere dell’alfabeto. Devi accettarlo: molti uomini hanno bruciato il terreno che lui si apprestava ad attraversare. Individui della nostra specie capaci di compromettere il futuro. Avvelenare le riserve d’acqua. Inaridire la speranza. Ecco perché le parole del Papa, pronunciate ieri per annunciare la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si terrà il prossimo 15 gennaio, ci stringono il cuore. Ci lasciano senza fiato.
Leggetele: in tanti anni di esperienza coi minori non accompagnati, io vi dico che lì c’è scritto tutto: compiti disattesi e impegni da assumere. Poche ore prima di comporre questo articolo ho chiesto al piccolo Mohamed, ospite di un centro di pronta accoglienza, quanti anni avesse. L’incredibile scolaro, analfabeta nella lingua madre, ancora non in grado di riconoscere i numeri, ha abbassato la testa e aperto il pugno per tre volte di seguito, come se dovesse giocare alla morra. Poi, alzando gli occhi, mi ha sorriso. Come dire: non ci credi? No, davvero. Secondo me al massimo potrebbe averne dodici. Sembra uno scugnizzo napoletano, ma è cresciuto nelle campagne vicino al Nilo. Senza giocattoli. Senza favole. Senza carezze. Senza scuola. Senza cultura. Chi sono i suoi genitori? Come hanno fatto a mandarlo via? Di più: come è stato possibile che l’abbiano venduto al miglior offerente?
Rispondere a queste domande, nascoste come vermi dentro le statistiche dei minori dispersi, significa rompere la crosta dell’indifferenza, far uscire il sangue dalla ferita.
I primi responsabili sono i parenti stretti, quelli che usano i propri figli come merce di scambio. Poi arrivano gli altri: mercanti, trafficanti, sfruttatori. Molti di questi bambini scompaiono nelle jungle urbane delle nostre metropoli. Sono biglie colorate nella melma delle periferie. Finiscono nei rigagnoli ai lati delle strade, riflessi di sogni spezzati. Precipitano nel fondo dei pozzi, negli antri oscuri, talvolta vicinissimi a noi, in un link sullo schermo, alla maniera di gioielli rubati. Non li ritroviamo più. Smembrati. Recisi. Offesi. Massacrati.
Noi dobbiamo sentire la loro mancanza come inammissibile: questa è la prima operazione etica che ci viene chiesta dal messaggio papale. Non illudiamoci che possa essere un gesto istintivo. Al contrario, si tratta del più classico fra i tanti esercizi spirituali da compiere. Immaginiamo di dover fare l’appello di una classe planetaria: Abdel, Babul, Cecilia, Diarra, Elsayed, Florina, Helal, Irina… Eccoli qua, sfuggiti alle guerre, alla fame, alla povertà, alla tristezza di un destino già segnato dalla miseria. Chi alza la mano per segnalare la propria presenza e chi invece non potrà mai farlo.
Restano tante file di banchi vuoti nell’Europa dei diritti umani, lo stesso Vecchio Continente che nei secoli scorsi e fino all’altro ieri si è riempito la bocca a furia di proclami, dichiarazioni e carte del fanciullo. I bambini che non rispondono alla chiamata sono come la schiuma dell’oceano che batte sullo scoglio: in pochi secondi ridiventano aria. Pulviscolo luminoso. Essere consapevoli di questa loro tragica sorte significa uscire dalla semplice dimensione verbale se è vero, come è vero, che le parole devono avere un senso e non possono diventare una semplice cosmetica, un belletto gratuito, privo di riscontro e giustificazione.
Abbiamo fatto troppi congressi. Troppe riunioni. Troppe conferenze. Troppe assemblee. È ora di entrare in azione, secondo quella che a me sembra l’indicazione più preziosa di papa Bergoglio: non tenersi niente per sé. Svuotare i forzieri. Spendere tutto, talenti e risparmi, compresi gli spiccioli. Rimanere con le tasche vuote.
Il tempo stringe e ognuno di questi bambini perduti lo rende ancora più corto.