Il Governo infatti sta correndo ai ripari e, con il decreto del 1 settembre 2016, ha individuato i requisiti dei Centri governativi di prima accoglienza per minori. Il provvedimento garantisce la permanenza fino ad un massimo di 60 giorni nel Centro di accoglienza che può accogliere al massimo 30 minori. I servizi primari che le strutture devono offrire ai giovani ospiti sono quelli amministrativi (registrazione di ingresso e uscita definitiva dal centro, e dei movimenti giornalieri) e relativi alla persona (mensa, cura personale, orientamento linguistico, mediazione culturale, informazione giuridico-legale, identificazione e affidamento successivo del minore).
La dott.sa Maria Caprara, Viceprefetto Responsabile della Missione accoglienza minori stranieri non accompagnati (Msna) del Ministero dell’Interno spiega a In Terris come cambierà l’accoglienza dei piccoli profughi.
Sono più di 13mila i profughi minorenni arrivati sulle nostre coste nei primi sei mesi del 2016. Con questi numeri – il doppio dello scorso anno – è davvero possibile garantirne la tutela? Anche con 30 minori nella stessa struttura?
“Nella prima fase a seguito di uno sbarco, se riusciamo ad occuparci di accogliere già facciamo tanto. Certo prima le strutture non potevano avere più di 10 – 12 minori ma in questo modo non raggiungevamo l’obiettivo primario di accoglienza. Ad ogni sbarco ormai abbiamo 100 minori. Quello che come Ministero vogliamo garantire è un primo screening anche in questi Centri di accoglienza che hanno una capienza grande. Sarebbe auspicabile che gli operatori, nell’arco dei 60 giorni previsti, possano individuare il minore che potrebbe essere vittima di tratta, quello con disturbi psichici o quello con disabilità. Per questo è importante la presenza delle assistenti sociali e il colloquio previsto dalla Direttiva 142 del 2015 almeno con uno psicologo dell’età evolutiva. Ma queste figure professionali, dopo uno sbarco non possono davvero fare nient’altro nel loro Comune per alcuni giorni. Sono comunque i minori più vulnerabili che chiaramente vanno identificati e spostati al più presto. Anche per questo sono stati previsti all’interno della rete Sprar, nella seconda fase di accoglienza, dei posti per le disabilità psichiche o fisiche”.
È vero che si rischia di trattenere troppo a lungo i minori stranieri non accompagnati nelle strutture di prima accoglienza del sud per le lungaggini burocratiche, ad esempio la nomina del tutore, l’autorizzazione della Procura al trasferimento in seconda fase?
“Certamente il discorso del tutore è un problema perché oggi richiede tempi lunghissimi. Nei nostri centri però non vogliamo perdere tempo e dove possibile mandiamo una comunicazione all’autorità giudiziaria competente segnalando che il minore viene spostato in altra struttura per minori e si aprirà un’altra tutela là dove viene trasferito se non è già stato fatto. Chiaramente a chi non ha un tutore può accadere che il provvedimento per la richiesta di asilo rimanga in sospeso. Ma per la legge 183/84 anche il responsabile della casa di accoglienza può espletare questa funzione. Si sta comunque cercando di migliorare questo punto con un elenco di tutori che faranno capo all’autorità giudiziaria. Non vogliamo scoraggiarci di fronte alla mancata tempestività: la prima accoglienza deve essere assolutamente di breve durata per poi concentrarsi sui ragazzi, conoscerli e comprenderne la storia di origine e gli obiettivi. Devo dire che c’è comunque un forte impegno dell’autorità giudiziaria minorile, soprattutto nelle Regioni che sono anche le Regioni di approdo”.
Col flusso dei profughi si sono moltiplicate le adolescenti nigeriane destinate alla tratta ai fini di sfruttamento sessuale? i trafficanti si servono del sistema asilo per regolarizzare chi sarà costretto per diversi anni a vendere il proprio corpo per saldare il debito contratto?
“La prima ragazzina che ci capitò, tramite le mediatrici dell’Oim, fu subito inviata in una casa per vittime di tratta perché ognuna di loro ha bisogno di una protezione specifica altrimenti diventa preda degli sfruttatori. Sono proprio i loro bersagli! Occorre tempestività negli interventi. Hanno bisogno poi di un progetto individuale a lungo termine. A questo fine possono essere molto utili le associazioni del terzo settore. È la legge 183 del 1984 che disciplina il diritto del minore ad avere una famiglia e i vari istituti che caso per caso vengono ritenuti più idonei per quel minore. Può essere la comunità, l’affido familiare o la casa famiglia, a seconda dei casi”.
Le forze dell’ordine in diverse città lamentano di non avere sufficienti risorse per intervenire a tutela dei minori in particolare quando sono in strada per l’accattonaggio o costrette a prostituirsi. Ma quale dovrebbe essere la prassi per la loro tutela?
“Molti sono bambini ma è vero che ci sono anche adolescenti che non dichiarano la minore età. Si potrebbe fare tanta filosofia sui metodi di identificazione della minore età perché in Europa tutti fanno la prova del polso e dell’arcata dentaria invece solo noi in Italia siamo accusati di usare metodi troppo invasivi. E allora usiamo un protocollo multidisciplinare. Ciò che conta è che tutti, assistenti sociali, operatori di strada, forze dell’ordine facciano fino in fondo il loro compito tenendo conto delle normative e delle prassi che ci sono. È chiaro che le forze dell’ordine da sole non possono occuparsi anche dei minori. Una Questura non può destinare la metà delle sue risorse per questo: sono sottodimensionate! Specie al sud. L’Ufficio Immigrazione di Ragusa per esempio con tutti gli sbarchi che ha dovrebbe essere potenziato mille volte”.
Ma secondo lei sono di più i minori che restano nei centri perché vogliono integrarsi nel nostro paese o i minori che scappano?
“È un nodo molto difficile da sciogliere questo! È vero che spesso capita che il minore rimanga 4 o 5 giorni nelle strutture e poi si allontani. La polizia lo trova e lo accompagna ai Servizi sociali del Comune ma poi scappa di nuovo. Alcuni perché coinvolti dalle reti criminali altri perché spesso è la famiglia che li ha mandati in Europa per raggiungere un familiare. È vero anche che gli allontanamenti riguardano soprattutto la fascia di età tra i 14 e i 18 anni, più a rischio, ma è fondamentale che questi ragazzi acquistino prima di tutto fiducia in chi li accoglie. Tanti hanno ancora un debito da pagare. Non basta che diciamo loro semplicemente di andare a scuola, hanno bisogno di lavorare e per questo cadono nei circuiti illegali anzi molto spesso arrivano già con le indicazioni delle persone a cui rivolgersi per entrare in questo circuito. Questi allontanamenti dalle strutture si fronteggiano con la qualità dell’accoglienza: questa è la nuova sfida! Abbiamo aiutato due minori di recente col ricongiungimento familiare: una aveva un fratello in Germania ed era scappata dalla finestra di un Centro di accoglienza e si era pure rotta la gamba. E l’altra aveva uno zio in Francia. Con le organizzazioni che collaborano con noi, in primis l’Oim, siamo finalmente riusciti a farle arrivare alla meta con vie legali”.
Qual è la sua esperienza personale? Intravede un futuro di speranza per questi “piccoli” richiedenti protezione? O rischiano davvero di diventare “invisibili” che popolano le grandi metropoli vivendo di sotterfugi ed economie illegali?
“Chiaramente la sfida è accogliere e tutelare i più piccoli cercando di individuare le diverse vulnerabilità. E per permettergli un vero percorso di integrazione occorrerebbe spostarli il prima possibile dai Centri di prima accoglienza. Ma le normative ci sono. La cosa importante è che ognuno faccia il meglio che può a livello personale, nell’incarico che ricopre. Il coordinamento degli interventi è fondamentale nei territori perché chi scappa venga riaccolto ma anche possa trovare operatori preparati che lo aiutino a comprendere che ci sono vie legali per perseguire quel progetto migratorio per cui è partito. Mentre quelle illegali, anche se sembrano più facili, lo metteranno solo in pericolo”.
di Irene Ciambezi